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Memoriale di viaggio
Alberto Crespi


Amsterdam Station
foto AWVariant

Qualche anno fa, nella stazione ferroviaria di una metropoli olandese, una serie di video proiettati su grandi schermi, distribuiti tra hall, biglietterie, ristoranti e sale d'attesa, proponeva in diretta i movimenti e l'attesa dei passeggeri all'interno dell'edificio e sulle banchine. Le trasmissioni erano prive del sonoro che non fosse il rumore di fondo della stazione stessa.
In un bianco e nero, ove fortemente contrastato, ove svagante in un fluire di mezzitoni che rallentavano la percezione, centinaia, migliaia di figure venivano continuamente a sovrapporsi, sostituirsi e scomparire inghiottite da un vortice temporale scandito senza tregua dal ritmo degli orologi digitali.

Soltanto in minima parte i passeggeri in transito mostravano d'accorgersi d'essere oggetto e soggetto sugli schermi, né altrimenti poteva essere, data l'esiguità del tempo in cui la loro stessa immagine veniva loro incontro, scomparendo immediatamente all'istante del passaggio sotto la videocamera celata da pannelli o da strutture sospese. Qualcuno se ne accorgeva nel momento in cui, seduto in attesa, si intravedeva per un attimo sullo schermo nell'atto d'aggiustarsi i capelli o di cercare qualcosa in tasca o in borsa, o mentre apriva o chiudeva un giornale o un libro tra le mani. Ma stentava a crederci perché la ripresa si spostava secondo un angolo piuttosto ampio, e i video s'intercambiavano in sequenza programmata tra le varie sedi di ripresa o, semplicemente, perchè lo specchiarsi in un momento senza colore muoveva al dubbio circa la veridicità di un'ombra.

Un senso leggero di disagio nasceva soltanto in quegli spettatori che, per capacità d'osservare o perché casualmente più a lungo coinvolti, riuscivano distintamente a cogliere il rapporto tra le immagini che scorrevano sotto i loro occhi e la realtà circostante.
Il disagio si tramutava in angoscia sottile quando il video mostrava, ripresi di lato, i passeggeri sulla banchina muoversi a piccole onde, come una risacca, aspettando il convoglio, per esservi poi rapidamente risucchiati all'apertura delle porte del treno accostatosi alla banchina, sparendo all'interno delle vetture, quasi sospintivi con violenza, per non più riapparire.

Quei video, senza nulla celare, sommavano una serie infinita di sottrazioni, crudeli nel loro scattare come tagliole su corpi ignari, vittime della loro stessa programmata deportazione. Gente con le mani in tasca, con un ombrello, una valigia, uomini e donne di tutte le età, signori con portadocumenti, signore con un foulard annodato alla borsa, ragazzi con zaini da scuola o con uno strumento nella sua custodia, bambini per mano a un familiare, erano tutti indistintamente avviati a scomparire alla vista, svanendo in una landa senza ritorno in cui i gesti si spegnevano senza possibilità di risposta e le parole erano mute sul nascere.
Al termine di ogni periodo programmato di proiezione, poco prima di un intervallo in cui lo schermo ritornava nero, le figure si dissolvevano per il tempo di una manciata di secondi, che sembravano lentissimi, in forme lattescenti, quasi fossero a bella posta abrase tratto su tratto, come si cancellano le voci di una lista ripercorrendone le lettere con il bianco per sottrarne, con l'impronta dei nomi, la memoria.
Nel tempo sospeso tra un video e il successivo, in poche parole a scorrere in bianco su nero si ringraziava con garbo ogni attore inconsapevole di quella diaspora, per l'apporto dato alla consegna collettiva di tramandare la memoria dell'Olocausto. Parole che, nella loro icastica brevità, invero molti riuscivano a leggere, interrogandosi sul loro perché nel momento stesso in cui concedevano il loro corpo all'occhio nascosto del persecutore.

Ma pochi, pochissimi, nel tempo sospeso dell'attesa, giungevano alla consapevolezza del cumulo di perdita connesso in ogni istante ai loro gesti come ad ogni atto umano: una privazione tanto più irrimediabile quanto più l'azione è di vasta portata, interconnessa per molteplici percorsi con le contigue attraverso lo spazio e il tempo, a determinare il destino di ognuno e, propriamente, attraverso l'incessante sottrazione, di valore infinitesimale ma ineludibile, di ogni via di scampo.
I passeggeri continuavano nel loro inesausto andirivieni all'interno dell'enorme trappola di vetro e acciaio di cui non percepivano i confini, godendo di infime pause, scambiandosi quegli sguardi che nel cerchio insicuro di una stazione la nostra incolpevole curiosità spinge sui volti e sull'aspetto altrui, lasciando intravedere da gesti minimi, da sfumature dell'espressione, la ricapitolazione di un elenco o di un progetto di quotidiana portata. Acceleravano insensibilmente la camminata e il respiro verso il controllo della propria posizione e del tempo, trascorso o incipiente, senza percepirne il doloroso slittamento all'indietro o l'incombere incontrollabile, senza presupporre ostacoli al proprio procedere, senza intuire pericoli di sorta, ognuno affidato alla fragilità del proprio passo su un lago ghiacciato illuminato a giorno da migliaia di lampade, a suggerire, senza convincere, con lo strepito abbacinante del loro impendere capace di fugare ogni ombra, una virtuale sicurezza del luogo.

Nell'assieme articolato dei volumi, nel fluido continuo del movimento, nel dipanarsi ininterrotto delle relazioni e nel loro reciproco angolarsi sotto l'eco di cieli invisibili, la stazione appariva come un'immensa cellula percorsa da una miriade di archi voltaici capaci di bruciare la materia dal suo interno, proiettando sulle pareti la sinopia di tutti i pensieri che la attraversavano, come se il nome di ogni essere perduto nello scorrere dei video ritrovasse salva la sua leggibilità sulla grande volta trasparente, come le stelle sul cielo notturno nella grande cupola del Children's Memorial del Museo di Yad Vashem a Gerusalemme.

Alberto Crespi

Children's Memorial

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  25 gennaio 2011